
Il setting nell’era dei social.
Blog, FB, LinkedIN, YouTube, Google, Groupon, Whatsapp, Messenger, Instagram, Pinterest. Come profili siamo ovunque, la nostra vita è esposta, usiamo nuove forme di promozione della nostra attività. Eppure, noi psicologi siamo molto ambivalenti sulla rivoluzione social. Scettici sulla pubblicità libera. Convinti che senza tariffe minime non ci sia più una buona stagione.
Mi dichiaro subito: sono nettamente per esplorare e sperimentare. I mutamenti sociali non chiedono il permesso a nessuno per arrivare, tantomeno agli psicologi. Ritengo impraticabile qualunque chiusura a priori (‘io non uso whatsapp con i pazienti‘ – ‘Davvero? e se loro lo usano con te?‘). Questo articolo è per chi vuole interrogarsi sui capisaldi del nostro modo di fare professione.
Come impatta la rivoluzione social sul rapporto terapeutico? quali ricadute sul setting nel caso di invii ricevuti tramite le improbabili macchine volanti di Google, Groupon, Facebook e tutto quanto verrà? cosa accade nel rapporto terapeutico quando i nostri pazienti possono sapere molto di noi, e cercano attivamente informazioni?
Perché è inutile nascondersi dietro ad un dito: tutti abbiamo dei blog, e lasciamo tracce scritte. Google esiste e la gente lo usa per avere informazioni. Groupon esiste, e la gente lo usa per comprare. FB esiste, e la gente lo usa sempre di più per confrontarsi. Per non parlare delle infinite messaggerie che tutti oggi usano per comunicare.
Non ho mai amato i pregiudizi. Specie in ambito professionale. Ho aperto il sito internet del mio studio nel 2005, mentre Bersani liberalizzava la pubblicità e i professionisti gridavano allo scandalo. Ho usato mail e SMS con i pazienti quando i miei maestri di specializzazione rivendicavano l’obbligo del telefono. Molto ha fatto il mio primo impatto con la professione: sui libri di Semi leggevo del modo giusto di accostare quadri e divani e orologi, ma in comunità terapeutica mi trovavo a fare colloqui dove c’era posto, dalla sacrestia al carcere. Un setting elastico, per usare un eufemismo.
Ma la questione del setting non è banale. E proprio per il valore che ha, non è faccenda che si possa risolvere con rigide ricette buone per tutte le stagioni, sostenendo posizioni estreme (‘il setting è tutto’, ‘il setting è dentro di te’, etc.) o usando formule sacerdotali che nemmeno noi capiamo. Oggi più che mai, il setting non può essere pensato come un meccanismo sigillato da ogni infiltrazione, come immerso in un bagno di silicone.
Se cambia il mondo, se cambia la società, se cambia il mercato, cambia l’ecosistema in cui operiamo. Io sono dell’idea che abbiamo – come professione – il mandato sociale di saper leggere e decodificare i fenomeni sociali. E allora noi per primi dovremmo essere curiosi dei mutamenti sociali, viverli, perché è con questo che dobbiamo fare i conti in studio.
Ok. Scendiamo nel concreto: tre case history.
TARIFFE E PUBBLICITA’.
Sono passati 10 anni da quando il decreto Bersani spazzò via tariffe minime e vincoli alla pubblicità. Il decreto fece imboccare all’Italia la via delle direttive UE in materia di concorrenza. Perché non se l’è inventata Bersani, la questione delle tariffe e della pubblicità libera: l’Italia era solo – come sempre – un passo indietro.
Il tema della pubblicità e il caso della maximulta all’Ordine dei Medici l’ho approfondito in QUESTO ARTICOLO.
A distanza di dieci anni, girovagando fra i gruppi FB dei professionisti – architetti, commercialisti, psicologi, avvocati et similia – si parla ancora e regolarmente di tariffe minime e del loro valore nel regolare il mercato. A volte pare la storia di Hiroo Onoda, il soldato giapponese che rimase anni nella giungla pensando che ci fosse ancora la guerra.
C’è chi invoca l’Ordine. La deontologia. Le punizioni corporali. Eppure, i casi celebri di pubblicità controversa degli Avvocati hanno fatto scuola: dal 2011 in poi sul modello anglosassone aprirono i primi ‘negozi legali’, con tanto di vetrina fronte strada, tariffe in alcuni casi low cost e senza necessità di appuntamento. E gli Ordini forensi, dopo le prime scaramucce deontologiche, dovettero arrendersi all’evidenza che si poteva fare. Si trova traccia abbondante di questa kermesse su Google.
GROUPON
Dopo il mio primo articolo dedicato a Groupon (QUESTO), la più controversa fra le forme di promozione per medici e psicologi, ho avuto svariati riscontri. Affermavo la necessità di prendere atto che il cambiamento radicale nella società, nel mercato e nella normativa in materia di pubblicità dei professionisti ci impone – volente o nolente – di pensare all’impatto sui nostri business model.
Con mia grande sorpresa, i molti colleghi pregiudizialmente contrari alla presenza su Groupon di psicologi e di professionisti in genere hanno ceduto gradualmente posizioni, accettando di confrontarsi di persona, in mailing-list e in gruppi FB sull’impatto della pubblicità sul setting. Superato il tema del decoro, che non pare più questione saliente o quantomeno richiederebbe a tutti di mettere in atto il celebre esercizio della trave e della pagliuzza, si è presto entrati nel vivo di alcune questioni.
Una questione critica è il prezzo. Groupon gioca sul prezzo: promette di farti provare a costo accessibile come mai accadrebbe, prodotti e servizi di qualità. Da cui nasce la principale obiezione: il nostro Sapere professionale è prezioso e quindi non deve essere venduto in luoghi e con pricing inopportuni, oppure possiamo occasionalmente collocarlo nello scaffale delle offerte, per periodi e porzioni limitate? e i clienti capiranno che quello che offriamo in offerta è diverso da una vera prestazione professionale? oppure faranno il paio al ribasso, classificandoci fra le cianfrusaglie da mercatino?
La seconda questione critica è che Groupon intercetterebbe e porterebbe agli esercenti i cacciatori di sconti: una particolare specie di consumatore che è assolutamente disinteressato a relazioni durature, che non è strutturalmente un cliente fedele o fidelizzabile, che salta da un massaggio ad una pizza, da un parrucchiere ad uno psicologo, da un’epilazione a un’ecografia con disinvoltura e disincanto. Praticamente il contrario di quel che dovrebbe fare una persona che si rivolge ad uno psicologo, se vuole ottenere qualche risultato.
In QUESTO ARTICOLO racconto il mio esperimento personale con Groupon. Non vale come regola generale, però è un primo passo per iniziare a esplorare i nuovi setting della professione.
In uno dei tanti contesti di confronto attivo online fra colleghi, emerge il problema di Facebook. ‘Come gestire le proprie informazioni personali, posto che i pazienti non devono sapere nulla di noi?’, chiede una collega.
Mi blocco sulla premessa. Perché il tema della riservatezza non nasce a caso: si colloca in quello spazio vuoto fra terapeuta e paziente in cui quest’ultimo non deve trovare appigli su cui modellare ciò che dice. Un problema di posizionamento, insomma: l’idea che se il paziente sa in che posizione sono su certi temi, la relazione terapeutica ne sarà inevitabilmente modificata.
In fondo, è il grande problema di ogni disciplina, dalla Fisica alla Medicina alla ricerca. Un problema irrisolvibile, se affrontato in modo rigido: l’immacolata relazione non esiste.
Facebook pone però un problema di disclosure anche involontaria: rischiamo di rivelare informazioni che non vorremmo, come le nostre opinioni politiche, la nostra quotidianità, la nostra rete di relazioni, la versione balneare di noi stessi (qui si vedono le cose più incredibili!).
Le soluzioni più fantasiose a mio avviso servono a poco: che tu ti apra due profili (uno super-segreto-solo-per-amici), una pagina e un profilo, un profilo riservato o simili, il problema resta: chiunque può raccogliere informazioni su di te da FB con banali accorgimenti.
Personalmente, ho scelto di gestire la mia presenza su FB attraverso un profilo unico e del tutto aperto alla lettura pubblica, in cui seleziono attentamente ciò che pubblico. Parto dal presupposto che per quanto aggiunga lucchetti, qualunque cosa io posti è da considerarsi pubblica e agisco di conseguenza.
Ma sopratutto, occorre prendere atto di un cambiamento epistemologico: la dimensione 2.0 ci colloca, anche come professionisti, nel mondo reale. Esposti. Gli sviluppi futuri della tecnica trattamentale credo non potranno prescindere dal fatto che il terapeuta è nudo.
UN FINALE APERTO.
Il mio augurio è che la nostra categoria sappia aprirsi a questi nuovi setting con la curiosità dell’antropologo: si tratta di osservatori sociali di assoluto interesse per capire le nuove dinamiche della domanda di psicologia, che non sono affatto così drammatiche come sembra.